Parla il marito della stilista uccisa nella loro casa di via Settala, una delle otto donne uccise tra gli anni Sessanta e Settanta e senza mai giustizia.
«Io ero sempre in procura, del caso si occupava il dottor Alessandrini, poi assassinato dai terroristi. Ero sempre in questura. Ero sempre nelle sedi dei giornali, a cominciare dalla vostra, in via Solferino. Per settimane, per mesi. Per anni… Con qualche inquirente, si stabilì un legame forte… Mi venne data l’inusuale possibilità di leggere tutte le testimonianze, casomai ci pescassi delle cose che non andavano…». Siccome non bastava, l’uomo all’epoca marito di Valentina Masneri, una delle otto donne uccise tra gli anni Sessanta e i Settanta e senza mai giustizia, avviò una contro-inchiesta. «Non ero da solo, mi aiutavano degli amici. Dopo poco, ci accorgemmo di venire spiati». Da chi, non lo dice. In linea con questo colloquio, che non avrebbe voluto cominciare e che invece ha portato avanti per quasi tre quarti d’ora.
Si è ritirato a vita propria, lontano non soltanto geograficamente (cinque ore di macchina) da Milano, dove il pomeriggio del 18 marzo 1975, un killer accoltellò a ripetizione alla schiena Valentina, una stilista di 25 anni. Alle 17.55, all’aeroporto di Linate, la aspettava un aereo per Francoforte, doveva mostrare alcuni bozzetti a dei clienti. La scena del crimine fu l’ampio ed elegante appartamento al civico 57 di via Settala. Un omicidio irrisolto che, secondo lo studio del criminologo Franco Posa e del quale stiamo dando conto da inizio anno, potrebbe avere avuto l’identica mano degli altri delitti, configurando dunque un serial killer.
La siderale distanza cronologica rispetto ai fatti, ha ripetuto l’avvocato Valter Biscotti, uno dei massimi penalisti italiani ed esperto di cold case, potrebbe non essere un ostacolo insuperabile in considerazione della potenza delle odierne tecnologie, iniziando dall’esame delle tracce di Dna. A patto, e il legale si sta muovendo in tal senso su delega dei famigliari, che arrivino i fascicoli e nella speranza che i reperti siano ben conservati.
Il marito di Valentina preferisce restare anonimo, caratteristica non rara in questa rilettura degli omicidi (anche l’unico figlio di Olimpia Drusin ha fatto la medesima scelta). L’impressione, nella conversazione avvenuta al telefono — incedere lento, grande attenzione e riflessione prima di parlare — è che abbia o abbia avuto una chiara idea, che però non vuole condividere. Del resto, dice, il caso non è chiuso e se qualcuno sa e ne intende parlare, dev’essere cercato a palazzo di giustizia e in questura. Suggerisce, ma anche qui senza dar seguito all’indicazione, di «spostarsi qualche chilometro rispetto a Milano». Ritiene infondata l’eventualità di un collegamento tra la fine di Valentina e Nino Sindona, il figlio del criminale. Vero che anni prima erano stati amici, ma un’amicizia come altre. La volgarità di una domanda, legittimata dalle congetture secondo le quali Valentina avesse una seconda vita, incontra immediata replica negativa.
Scontata, al netto delle voci di popolo che, quando non si configura un assassino, attaccano morbosamente a fantasticare sulla vittima, volendo in essa individuare per forza una spiegazione se non addirittura una colpa originale. Mamma e papà Masneri abitavano a ridosso dalla stazione Centrale, a un isolato da via Settala; i rapporti tra figlia e genitori (e quelli di loro due col marito, e così, estendendo, quelli di Valentina con colleghi, vicini di casa e conoscenti) erano ottimi, privi di strascichi. Donna assai moderna anche nelle scelte estetiche dall’arredamento agli abiti indossati, viaggiatrice, di cultura, anima creativa e gioiosa, secondo quanto raccontato nel 1975 dalla madre, Valentina aveva una naturale vocazione a non girare lo sguardo dinanzi ai più sfortunati, a chi invocava aiuto, e non tanto o non soltanto perché sposa anche delle cause perse. L’uomo che fu suo marito, lui pure con un’avviata e solida carriera professionale, e che il Corriere ha rintracciato dopo giorni dall’ultimo indirizzo in città (nella zona della vecchia Fiera) abbandonato trent’anni fa, dice che Valentina «aprì la porta alla persona sbagliata». Quale eventualmente, di nuovo nulla aggiunge.
E non dà spiegazioni sulla seguente frase: «Nel corso della contro-inchiesta, capitammo a Padova. In un palazzo dove, proprio in quei giorni, morì una persona». Né dall’uomo vi sono rimandi a una circostanza della quale si parlò, ovvero che lui avesse confessato che un poliziotto amico, a un certo punto, l’avesse consigliato di lasciar stare, «poiché su questo omicidio non possiamo più indagare». Forse un falso storico. Forse, nel baratro della disperazione, una verità abiurata.