L’ipotesi di un omicida seriale nei cold case di Milano: Valentina Masneri e Tiziana Moscadelli aprirono la porta a una persona conosciuta. La foto mai vista della scena del crimine e quel fazzoletto in bocca
A sette mesi dall’inizio dell’inchiesta sui «cold case» di Milano degli anni 60 e 70 con l’ipotesi di un unico killer per otto donne, i primi inediti documenti ufficiali, recuperati e visionati dal Corriere, mappano un collegamento che, nel caso, sarà utile a eventuali inquirenti. In realtà avevamo già registrato due connessioni: una fotografia che ritraeva insieme due vittime (Adele Margherita Dossena ed Elisa Casarotto), grandi amiche nonostante la forte differenza d’età, di storia famigliare, di vita, di geografia e di lavoro (una gestiva una pensione per studenti e ferrovieri a Porta Venezia, l’altra era prostituta nell’hinterland e abitava nella periferia ovest), e inoltre i referti delle autopsie che cristallizzavano aggressioni simili per modalità, arma, numero, tipologia delle coltellate.
Ma adesso, la lettura di verbali di sopralluogo, di analisi e fotografie della scena del crimine, e di interrogatori, dunque la visione delle carte battute a macchina dagli investigatori, stabilisce quantomeno una linearità nell’azione dell’assassino. La stessa Dossena, madre dell’attrice Agostina Belli e uccisa nel 1970 nell’alberghetto in via Copernico 18, in un contesto urbano allora di ampio e diffuso degrado essendo il centro a Milano del sesso a pagamento e dei rifugi di rapinatori e ladri, aveva afferrato il telefono fisso nel disperato tentativo di dare l’allarme ma poi si era servita dell’apparecchio per difendersi, avendo appurato che quel telefono era staccato. E così, nella certificazione cartacea dei rilievi delle forze dell’ordine negli appartamenti di Valentina Masneri (ammazzata nel 1975 in via Settala 57) e Tiziana Moscadelli (nel 1976 in via Tertulliano 58), emerge un nuovo punto in comune: il telefono fisso sganciato dalla presa, ovvero dalla sua naturale sede. Se il presunto serial killer abbia isolato le vittime dal mondo prima di aggredirle, per appunto anticipando tentativi di dare l’allarme aggrappandosi alla cornetta, oppure se abbia proceduto in seguito, consumato il delitto, per lasciare l’apparecchio «occupato» e guadagnare tempo nella fuga, o non innescare preoccupazioni in chi avrebbe chiamato le donne, non è dato sapere, pur se quegli investigatori di allora propendevano per il primo scenario.
Del resto all’epoca, anche a causa della concomitanza di eventi tragici in quella Milano buia (stragi, terrorismo, bande criminali, sequestri di persona, una violenza omicida innescata da liti in famiglia, per strada, nei luoghi di lavoro), e come ammesso da un ex sbirro della Criminalpol quale Fabio Miller Dondi, di una conseguente minoritaria se non addirittura residuale attenzione ai delitti all’apparenza routinari, nessuno aveva mai messo in relazione gli omicidi delle donne: insieme a Elisa Casarotto (nel 1963), Adele Margherita Dossena, Valentina Masneri e Tiziana Moscadelli, quelli di Olimpia Drusin (1964), Alba Trosti (1969), Salvina Rota (1971) e Simonetta Ferrero (medesimo anno e l’assassinio più mediatico, avvenuto nell’università Cattolica).
Nella puntata precedente, uscita domenica scorsa, 18 luglio, per la prima volta negli ultimi quarantacinque anni aveva parlato il fratello di Tiziana Moscadelli. All’esibizione da parte del Corriere di alcuni documenti, l’uomo aveva risposto di ignorare sia una serie di bigliettini scritti a mano dalla sorella e recuperati dalle forze dell’ordine quando ispezionarono l’appartamento di via Tertulliano – i bigliettini saranno tema di prossimi approfondimenti nel corso dell’estate –, sia una fotografia della scena del crimine. Quella che vedete qui sopra. Per cominciare, una rapida descrizione, anche se non è soltanto questa che ci interessa: le dimensioni ridotte dell’abitazione, un bilocale condiviso (in un palazzo noto alle forze dell’ordine per la sua umanità dolente) con due uomini che come Tiziana si prostituivano, ma mai in casa; la semplicità dell’arredamento e del materiale di mobili, tavolo e sedie; il corpo senza vita con indosso i vestiti comprese le calzature, a conferma del fatto che la giovane non fu uccisa nell’ambito di un rapporto sessuale ma, analogamente ad altri delitti (Dossena e Masneri sopra tutti), dopo essere entrato in quanto persona conosciuta ed essersi intrattenuto, probabilmente bevendo dei bicchieri di liquore o vino, con la vittima.
Nel rapporto conclusivo, i due medici legali incaricati dell’autopsia, a proposito di quell’«omicidio volontario», alla voce «causa della morte» scrissero di lesioni cranio-encefaliche, della carotide sinistra, di pleura, polmone destro, pericardio, cuore e fegato, escludendo tracce di violenza sessuale ed escludendo altresì la presenza di materiale spermatico. Ma tornando alla fotografia e alla scena del crimine, l’elemento sul quale dobbiamo focalizzarci è un fazzoletto nella bocca di Tiziana. Un fazzoletto intriso di sangue. Forse dell’assassino. Il quale commise sì errori, anche se mai come nell’omicidio di Valentina Masneri, e svelando molto di se stesso.