Il gioiello «Rosario» presente nell’inventario eseguito durante l’autopsia di Olimpia Drusin, la prostituta uccisa nel 1963 in via Pontano. Il figlio: «Mai visto»
Come attestato dal documento numero 1253 del 1963 dell’allora «Ripartizione dei servizi civici» del Comune, prima di effettuare l’autopsia di Olimpia Drusin, assassinata il 26 novembre di quell’anno e una delle otto donne per le quali si ipotizza un serial killer, il medico legale tolse dal cadavere martoriato dalle coltellate dodici oggetti alla voce «indumenti» e un tredicesimo alla voce «valori». Ma mentre nei primi figuravano elementi effettivamente addosso alla prostituta 44enne uccisa in via Pontano – foulard, scialle, gonna, pullover, slip, sottoveste, le due calze, le due scarpe, il busto e una confezione di fazzoletti –, l’ultimo oggetto è ancora oggi un mistero. Il mistero di un anello che, riporta quel documento in possesso del Corriere, era di metallo giallo e aveva un particolare.
Chi compilò il referto scrisse la dicitura «Rosario». E qui si aprono le domande. Il figlio, che serba ricordi nitidi e una forte lucidità, intanto esclude che la mamma avesse al dito un anello. Dopodiché, seguendo l’ipotesi di un nome di battesimo, lui di un tale Rosario non ha mai sentito parlare. Ugualmente, sostenendo l’ipotesi che l’estensore della nota avesse voluto intendere un anello del modello «Rosario», ovvero uno strumento per recitare la preghiera, Olimpia Drusin non andava mai in chiesa e men che meno si ritirava in contemplazione religiosa, in quanto lei e il cattolicesimo praticato erano assai distanti (e non indirizzò il medesimo figlio su questa esperienza). Stranezza: sempre a detta del figlio, quell’anello non comparve all’interno dell’indagine, fin da subito caratterizzata da «una certa sbrigatività nella sottovalutazione di importanti dati». Dapprima il luogo dell’omicidio: via Giovanni Pontano, accanto alla massicciata ferroviaria, quartiere Turro, una strada a fondo cieco dove Olimpia, a bordo della sua macchina si appartò con il killer, nonostante a venti metri abitasse una delle sue migliori amiche. E comunque la prostituta aspettava uomini in via Lazzaretto, e mai si spingeva oltre i confini dell’area compresa tra Porta Venezia e la Centrale, area dove peraltro sono stati ambientati tre delitti (Adele Margherita Dossena, Salvina Rota, Valentina Masneri) i cui referti autoptici, nella rilettura del criminologo Franco Posa, hanno isolato dirimenti corrispondenze. A cominciare dal modus operandi dell’assassino, il quale secondo l’impianto della contro-inchiesta avrebbe iniziato proprio con Olimpia, in quel 1963: un rapporto di conoscenza o quantomeno fiduciario tra lui e le vittime, sorprese dai primi fendenti e raggiunte da quella che potrebbe essere una «firma», la lesione in un preciso punto sotto il mento provocata dall’arma, una lama larga tra i due e i tre centimetri, e lunga tra i dodici e i quindici.
In questi cold case, lo scenario della prostituzione non è affatto minoritario: non lo è per lo stesso quartiere, che in quegli anni contava case chiuse clandestine e alberghi che di giorno offrivano camere per gli incontri sessuali; non lo è perché un anno dopo Olimpia, fu uccisa la prostituta Elisa Casarotto, che vantava una stretta conoscenza, nonostante la forte differenza d’età, con la terza vittima in ordine cronologico, cioè Adele Margherita, che gestiva una pensione in via Copernico e che, come sarebbe avvenuto nel 1975 con Valentina, aprì la porta non a un estraneo poiché lo fece accomodare portando in tavola due bicchieri e una bottiglia di liquore per scambiare delle chiacchiere; infine, bisogna registrare che anche Salvina, il mattino commessa in un supermercato, come ricostruito dall’allora Buoncostume della questura la sera si vendeva, ricevendo nella sua abitazione di via Tonale. Osservando la geografia, potrà forse apparire casuale un indirizzo, quello di via Vitruvio, dove Simonetta Ferrero (vittima del delitto più mediatico, quello nell’università Cattolica) si vedeva spesso in quanto frequentava un cineforum. Non fosse che lo stesso criminologo Posa, nell’esaminare sui referti autoptici la tipologia e la forma delle ferite, ha cristallizzato connessioni tra l’omicidio di Simonetta e quelli delle altre donne.
Tornando a Olimpia, v’è un’ulteriore anomalia: nel documento, che comprende una sintesi dell’omicidio scritta dal dirigente della sala medica della questura, Giovanni Carlo Tomassini, in un secondo inventario una riga barra la voce «scarpe» inserendo «pantofole». Dunque a legittimare una frettolosa uscita di casa della prostituta che, ricorda il figlio, poche ore prima aveva ricevuto la telefonata di un uomo. Chi fosse e cosa volesse, non si seppe mai.