Parla l’attrice che negli Anni Settanta e Ottanta ha stregato l’immaginario degli italiani: «Per tutti avevo una vita meravigliosa, ma a me non importava del successo. Nel 1970 mia madre era stata massacrata a coltellate e volevo solo scoprire la verità». Cinquant’anni dopo l’assassino non è stato ancora scoperto, ma il caso potrebbe essere risolto: «Ho ritrovato la speranza. Da figlia chiedo ai magistrati di aiutarmi»
«Sono passati cinquant’anni da quando mia madre è stata uccisa. Il suo assassino non è mai stato trovato. Mai avrei immaginato di poter, dopo tanto tempo, tornare a sperare in una soluzione del caso. Eppure, grazie alle nuove tecnologie utilizzate dal criminologo Franco Posa, non solo ho ritrovato la speranza, ma sono convinta che finalmente si potrebbe fare luce su questo delitto e anche sulle uccisioni di altre donne avvenute in quegli anni a Milano. Per farlo, però, la Procura dovrebbe riaprire le indagini.
Voglio rivolgere un appello ai magistrati affinché il caso di mia madre e di queste altre donne vengano riaperti. La mia è la richiesta di una figlia, non di un’attrice». A pronunciare queste parole è Agostina Belli, una delle star di maggior successo della commedia italiana, la diva che negli Anni Settanta e Ottanta ha stregato l’immaginario degli italiani, protagonista di film come Profumo di donna, nel 1974, che le valse il primo di due Golden Globe (il secondo è un premio alla carriera), Telefoni bianchi, per il quale due anni dopo vinse la Targa d’oro al David di Donatello e poi Holocaust 2000 con Kirk Douglas, Il Genio con Yves Montand, Doppio delitto con Marcello Mastroianni e Peter Ustinov, Un taxi color malva con Fred Astaire e Charlotte Rampling, per citarne alcuni. «Dopo la morte di mamma», spiega, «non c’è mai stato un momento in cui non mi sia chiesta: chi è stato? Perché? È arrivato il momento di conoscere la verità».
Accadde a Milano, non lontano dalla stazione Centrale. Al primo piano di un palazzo in via Copernico, Adele Margherita Dossena, 54 anni, separata e con due figlie già grandi, Agostina e Armida, gestiva una pensione frequentata soprattutto da studenti. Il 16 febbraio del 1970 fu massacrata a coltellate. Dopo solo un anno il caso fu archiviato. Qualche mese fa, però, un criminologo di esperienza internazionale, Franco Posa, esperto di cold case, ha scoperto che Adele Margherita Dossena non è l’unica donna massacrata a coltellate a Milano in quegli anni: almeno altre sei donne sono morte come lei, tutte aggredite alle spalle.
«Con un pool di esperti», dice Posa, «abbiamo geolocalizzato i delitti grazie a un software americano usato nelle indagini sugli omicidi seriali. È venuto fuori che questi sette delitti sono avvenuti in un triangolo preciso della città, dove un solo assassino poteva individuare, pedinare e aggredire le sue vittime. Con l’aiuto di tecniche di indagine innovative stiamo verificando la possibilità che si trattasse di un serial killer». Analizzando le autopsie di cinque vittime – Adele Margherita Dossena, Salvina Rota, Simonetta Ferrero, Valentina Masneri e Tiziana Moscadelli – Posa ha scoperto che a ucciderle potrebbe essere stato davvero un unico uomo, per di più mancino.
«In quegli anni nessuno mise questi delitti in relazione tra di loro», aggiunge l’avvocato Valter Biscotti, che assiste Agostina Belli e i familiari di altre donne uccise, «gli investigatori avevano, forse, altro a cui pensare. Nel 1969 era esplosa la bomba a Piazza Fontana, di lì a pochi anni il commissario Calabresi sarebbe stato ucciso. Il terrorismo prendeva piede, c’erano anche i sequestri di persona. Le indagini probabilmente sono state trascurate». Aggiunge: «In questi giorni stiamo facendo analizzare alcuni reperti che proprio Agostina Belli trovò sulla scena del delitto e conservò. Non escludiamo di trovare un dna. Intanto, aspettiamo che un magistrato milanese riapra le indagini per poter avere accesso ai fascicoli di ciascun delitto e verificare gli elementi in comune. Forse non servirà ad assicurare l’assassino alla giustizia: probabilmente è morto. Ma è giusto dare dignità e verità alle vittime e ai familiari».
Agostina Belli lo chiede a gran voce da cinquant’anni. «Sono una figlia che ancora vuole conoscere la verità», dice al telefono, «non mi stancherò mai di cercarla. La Procura di Milano aiuti me e mia sorella, e i familiari di quelle altre povere donne».
Che cosa ricorda di quel giorno?
«Avevo quasi ventidue anni e vivevo con mio padre. I miei erano separati e mamma gestiva una pensione a buon prezzo. Tra gli inquilini c’erano molti studenti universitari che lei trattava come figli, sempre pronta a portare una camomilla se stavano male, ad aiutarli. Sembrava una grande famiglia, loro la chiamavano “mamma Lina”. Mamma aveva la televisione, una cosa rara per l’epoca, e la sera il suo salotto era sempre pieno. Proprio quella sera c’era un film e alcuni inquilini si erano messi d’accordo per vederlo insieme, ma trovarono il portone dell’appartamento chiuso».
Di solito era aperto?
«Sempre. L’appartamento di mamma sembrava la reception di un albergo. C’era un doppio ingresso: il portone, un piccolo atrio e una porta a vetri. Lei chiudeva solo quest’ultima, a meno che non uscisse per periodi lunghi. Gli ospiti aspettarono per un po’, poi cominciarono a chiamare la “signora Lina”. Un paio di inquilini decisero di entrare. L’appartamento era tutto in disordine, come se ci fossero stati i ladri. Cassetti divelti, sedie per terra, mobiletti e tavolini spostati. Mamma era a terra nel salotto, morta. Noi lo scoprimmo solo alle 4 del mattino».
Chi vi avvisò?
«Una sorella di mamma. Telefonò e disse: “Scusate se chiamo a quest’ora, ma Lina si è sentita male”. Con papà e mia sorella ci precipitammo sotto la sua casa. E lì trovammo tutti i nostri parenti, sorelle, cognati, nipoti. Pensai subito al peggio, ma mai avrei immaginato una cosa simile».
Entraste nell’appartamento?
«Ci fecero aspettare nell’androne: avevano già messo i sigilli. La pensione rimase chiusa per il tempo necessario alle indagini. Io e papà andavamo sempre dai carabinieri, al commissariato. Ci dicevano: “Stiamo indagando, ci vuole tempo”. Poi, dopo solo un anno, ci chiamano: “Ci dispiace, abbiamo fatto il possibile, chiudiamo le indagini”. Non mi sono mai rassegnata, appena ho potuto ho ingaggiato un paio di detective. Per anni tutto quello che ho guadagnato l’ho investito per cercare l’assassino di mia madre. Intanto giravo film, è arrivato il successo. Ma la fama, i premi, i Golden Globe non mi interessavano: volevo solo guadagnare soldi per cercare la verità».
I detective non scoprirono nulla?
«Non solo non hanno trovato nulla, ma sono stata costretta a non indagare più. A un certo punto sono iniziate le minacce. All’epoca vivevo con il mio compagno in una villa in campagna vicino a Roma. Lui era sempre in viaggio. Tornando a casa, trovavo messaggi nella segreteria telefonica. Una voce camuffata diceva: “Smettila di indagare, di fare interviste, altrimenti farai la fine di tua madre”. Poi sono successi fatti strani».
Quali fatti?
«Avevo un cane meraviglioso, Lord, addestrato per difesa personale. Lo adoravo. Lo trovai avvelenato. Mi rubarono anche la macchina: se fosse accaduto qualcosa in quella villa isolata, non sarei potuta scappare. Andai alla polizia, per un paio di settimane misero una guardia davanti alla mia abitazione. Poi gli stessi agenti mi dissero: “Smetta di parlare di sua madre”. Mi diedero il porto d’armi, comprai una pistola, imparai a sparare al poligono. Andavo in giro con la pistola attaccata alla vita. Ero devastata».
La polizia all’epoca non le disse in che direzione si stava indagando?
«Non venivano certo a parlarne con noi. So che sono stati interrogati quelli che conoscevano mamma. Poi, dopo cinquant’anni, compro il Corriere della Sera e trovo un articolo su due pagine che parla di un probabile serial killer. Ci sono le foto di sette donne uccise. Tra loro c’è mia madre. Mi è precipitato di nuovo tutto addosso. Sono ricominciati gli incubi».
Lei crede a questa ipotesi del serial killer?
«Il criminologo Posa e i suoi colleghi stanno utilizzando metodi moderni che arrivano dall’America. Poi oggi esistono tanti esami che prima non c’erano, come i test del dna. Per questo la Procura deve riaprire il caso. Bisogna esaminare i fascicoli, gli interrogatori dell’epoca, verificare tutte le autopsie. All’epoca non sequestrarono nemmeno gli oggetti trovati nell’appartamento di mia madre».
Quali oggetti?
«Quando, dopo un anno, tolsero i sigilli, entrai e trovai la scena del crimine intatta. Con papà notammo alcune cose strane. Sul comodino vicino al letto c’erano una collanina e un orologio: quindi chi ha ucciso mamma non era un ladro».
Ma l’appartamento era stato messo a soqquadro.
«Forse l’assassino cercava qualche cosa. Oppure era una finzione per sviare le indagini. Sul tavolo della cucina c’erano due bicchierini da liquore, uno per mia mamma e uno per l’ospite. C’era anche un cofanetto di caramelle Sperlari ancora confezionato. Chi ha ucciso mamma, la conosceva. È andato a farle visita, lei gli ha offerto il liquore, hanno bevuto insieme, avranno parlato. Poi cosa è successo? Perché? La polizia avrebbe dovuto sigillare questi oggetti. Per anni non ho più avuto piacere del successo che ottenevano i miei film, tutto è passato in secondo ordine. L’uccisione di mia madre mi ha dato una scossa tale nell’anima che niente più mi dava gioia. Ma ora la verità potrebbe venire a galla. Grazie a queste nuove tecniche e alle recenti scoperte del criminologo Posa, i magistrati non hanno più scuse: devono dare risposte alle famiglie che aspettano da troppo tempo e giustizia a quelle povere vittime».