Il fratello della giovane prostituta e l’ipotesi serial killer: «I giri del bar di via Tortona»
«Io ero soltanto un ragazzino, mamma e papà cercarono di proteggermi ma le cose le capivo. E quasi subito capii che l’uccisione di Tiziana venne lasciata perdere. Dimenticata. Come dire? Fu chiusa, archiviata… Così, oggi, sono quarantacinque anni che aspetto — anzi, che aspettiamo — l’assassino. Quarantacinque anni. Già nei mesi successivi, se non nelle stesse settimane a seguire, magistrati e poliziotti non ci confidarono più una parola, forse perché non avevano nulla da confidare. Non un’ipotesi, non un indizio, non un’idea. Niente di niente. Sparirono come era da subito sparito l’assassino».
A sette mesi dall’avvio dell’indagine sui delitti irrisolti a Milano tra gli anni 60 e 70 e sull’ipotesi di un serial killer, il Corriere ha rintracciato i famigliari di Tiziana Moscadelli. Dopo l’omicidio — cadavere scoperto all’1.15 della notte da uno dei due coinquilini, entrambi travestiti che si prostituivano, nel bilocale di via Tertulliano 58 —, quei famigliari si chiusero nel silenzio. Adesso, rispettando l’età e le condizioni fisiche dei genitori, abbiamo parlato con il fratello della 20enne, sul cui corpo i due medici legali isolarono lesioni da arma da taglio al cuore, al fegato, al polmone destro, al pericardio, alla carotide, al cranio… Un alto numero di colpi, alla pari delle altre donne per le quali si paventa una comune mano omicida: in ordine cronologico Elisa Casarotto, Olimpia Drusin, Alba Trosti, Adele Margherita Dossena, Salvina Rota, Simonetta Ferrero, Valentina Masneri. Da ultima, appunto Tiziana Moscadelli, assassinata il 12 febbraio 1976. La polizia sospettò di quei travestiti, Salvatore e Pietro, che avevano 30 e 22 anni, ma fu presto acclarato che non c’entravano. Il colloquio con il fratello è vincolato al rispetto dell’anonimato; come spiega un investigatore esperto di omicidi e in particolare di cold case, non è vero che il tempo incrementa ed esaspera, fin quasi ad annullarle, le possibilità di risultati: sia per l’odierna tecnologia a disposizione di poliziotti e carabinieri laddove all’epoca ci si affidava al fiuto, sia in quanto la distanza temporale permette ai famigliari di discutere con un estraneo di un fatto sanguinario che ha spento un’esistenza e ne ha devastate delle altre. «La moglie di mio padre, e mamma di Tiziana, morì giovane; più tardi, papà sposò un’altra donna, cioè mia madre. Se non riesco a configurarmi la sopravvivenza a un figlio, pensi lei la sopravvivenza a una figlia assassinata e senza mai avere il volto del colpevole e i motivi per cui l’ha fatto… Questo dolore infinito, più che infinito, e privo di un pur minimo e non lenitivo contenimento — ovvero l’individuazione dell’omicida e del movente — ti scava dentro, ti mangia. C’è il senso di colpa, ingiustificato, che ossessiona un padre: quello di non aver impedito il delitto e, ancor prima, il macerante rimorso che se Tiziana non se ne fosse andata di casa… Ma era una ragazza libera, con le sue idee… Per quale ragione iniziò a prostituirsi? E chi mai può entrare nelle vere dinamiche della testa di un’altra persona, anche se è tua sorella o tua figlia? Nessuno può farlo».
Dunque Tiziana Moscadelli, che era alta 1.54 e venne rinvenuta supina in un angolo del soggiorno dell’abitazione, al piano alto di quel palazzo non residenziale, al contrario noto alle forze dell’ordine per l’umanità che esso ospitava, fino ai diciotto anni aveva abitato in casa della famiglia, sui Navigli. Poi, forse aspirando alla totale indipendenza, forse in disaccordo col padre su scelte di vita, salutò giurando che non sarebbe mai tornata. Infatti lo scenario cambiò rapido, perfino vorticoso: via Tertulliano 58 e due parchi, Sempione e Ravizza, luoghi dove Tiziana si vendeva e aspettava uomini. Forse non soltanto uomini: insieme all’individuazione di suo fratello, il Corriere ha potuto leggere e approfondire documenti, oggetto di prossime puntate, che permettono di esplorare il mondo di Tiziana e la sua fine, e in aggiunta forniscono elementi che solidificano l’ipotesi di un serial killer. Ma ora ascoltiamo di nuovo il fratello. «Ripeto, ero piccolo… Ma chiacchierando con lei, mi sono ricordato di un bar. Un bar malfamato, che stava dalle parti di via Tortona… Tiziana ci andava spesso. A me capitò una volta soltanto, entrai nel locale con lei ma, sarà stato per le brutte facce che c’erano e una generale aria respingente, dissi chiaro a mia sorella di tenermi lontano. Vado a deduzione: siccome si prostituiva e qualcuno per forza la “proteggeva”, forse quel qualcuno bazzicava il bar… Mi domando, e lo faccio senza intenzioni polemiche o volendo insegnare il mestiere agli investigatori ché tanto ormai è tardi, forse inutile, se le indagini siano cominciate in quel medesimo locale di via Tortona. Sì? E con quali risultati. No? E perché?».
A differenza di quanto si lesse e si ascoltò a Milano in quel febbraio del 1976, Tiziana Moscadelli era vestita e non nuda; l’anomalia per la quale mai riceveva nel bilocale ma nei parchi oppure salendo sulle macchine, e invece quella volta incontrò a domicilio il suo futuro assassino, rimane quella che è: una profonda anomalia. Punto. Non ci fu rapporto sessuale, non vi fu tentativo di un rapporto sessuale, non vi fu violenza sessuale: il killer, o il serial killer, non aveva percorso le scale fino al quarto piano per uno di quegli «obiettivi».
Mostriamo al fratello una foto della scena del crimine, che non aveva mai visto e gli consente di esplorare l’umile appartamento; e gli mostriamo degli scritti di Tiziana, che parimenti ignorava. La foto è focalizzata sul cadavere; chi scattò l’immagine aveva delle esigenze tecniche e non inquadrò un dettaglio che ci fa tornare indietro. Ad altri degli otto delitti. Almeno due. E forse in compagnia di quanto Tiziana lasciò in stampatello su dei foglietti bianchi.