l criminologo Posa compie una rilettura comparativa dei referti sulle donne assassinate a Milano negli anni Sessanta e Settanta: il modus operandi è sempre lo stesso e anche l’arma utilizzata. I tre punti in comune sulle scene del crimine.
La «lettura» di cinque referti autoptici in possesso del Corriere riscrive le coordinate di singoli delitti (non 33 bensì 49 i fendenti contro Simonetta Ferrero) e offre ulteriore validazione all’ipotesi di omicidi commessi dallo stesso assassino. L’analisi comparativa dei referti compiuta dal criminologo Franco Posa, che a gennaio ha concluso la prima fase di studio sugli otto cold case di donne uccise negli anni Sessanta e Settanta a Milano, individua tre punti in comune sulle scene del crimine, con l’ipotesi di altre connessioni, al momento sotto esame.
Modus operandi, rapporto tra killer e vittime, e arma utilizzata si ripropongono nei delitti di Simonetta Ferrero, Salvina Rota, Valentina Masneri, Tiziana Moscadelli e Adele Margherita Dossena, disegnando uno scenario che in quella città dilaniata da terrorismo, sequestri di persona e guerre tra gang restò confinato alle riflessioni di poliziotti e carabinieri — certo si parlò di un serial killer — mai però approdando a un livello di ufficialità. Ogni volta l’assassino iniziò il massacro frontalmente rispetto alle donne, sempre sorprese dall’azione e infatti, come nei referti documentano le ferite causate dai comportamenti difensivi, tardive nel reagire. Per esempio, sia Adele Margherita che Valentina aprirono la porta al killer portando in tavola due bicchierini e una bottiglia di liquore, a conferma di un livello di conoscenza, mentre Salvina fu rinvenuta cadavere in camera da letto e indossava una sottoveste. L’uccisione proprio della 22enne presenta una difformità poiché il killer tentò di bruciare il corpo dopo aver ucciso (incendiando volto e torace), una differenza forse spiegabile con la volontà di coprire alcuni «errori». Di sicuro, chi ammazzò impugnò la medesima arma. Gli elementi scientifici cristallizzati da Posa, lavorando sulla tipologia e le dimensioni delle lesioni, evidenziano una lama che taglia su un unico versante, larga tra i 2 e i 3 centimetri, e lunga tra i 12 e i 15 centimetri. Nei tre casi di Simonetta, Valentina e Tiziana, l’omicida ha inferto un colpo in un punto preciso sotto il mento. Presto per affermare che si tratti di una «firma» o di un «marchio», così come presto — ma sono previste novità assai a breve — individuare un uomo destrorso oppure sinistrorso. Assieme all’aggiornamento della contro-inchiesta, nella quale il professor Emiliano Giardina, il genetista di «Ignoto 1», sta cercando di individuare un profilo di Dna da frammenti di una scena del crimine, rimangono le donne, assassinate senza mai un colpevole.
La distanza temporale dei delitti (nel 1970 Adele Margherita, nel 1971 Salvina e Simonetta, nel 1975 Valentina e l’anno dopo Tiziana) non può legittimare il mancato tentativo, a maggior ragione grazie alla tecnologia contemporanea, di cercare giustizia. Nell’esame autoptico di Salvina, il medico legale isolò 18 lesioni per spiegare le quali avrebbe riempito di annotazioni due pagine battute fitte a macchina; nonostante quell’inverno gelido Adele Margherita portasse più strati di vestiti che terminavano in una spessa gonna e un maglione di lana, gli abiti erano «abbondantemente e irregolarmente intrisi di sangue»; sul corpo di Tiziana, il medico legale individuò 28 lesioni…
Una ferocia ossessiva anche nel colpire donne già decedute. Il 72enne Fabio Miller Dondi, ex Criminalpol, investigatore privato e unico a farsi avanti rievocando quelli che comunque furono insuccessi investigativi, «vede» un uomo forse impotente, fulmineo nell’esplodere dinanzi a un rifiuto sessuale o a una frase qualunque. Dice Dondi: «Ogni detective si porta dietro fino alla morte il fantasma di un caso irrisolto. Io e la mia generazione ne abbiamo otto. Se i giovani colleghi di oggi provassero a indagare, credo che rispetterebbero le vittime e anche noi vecchi sbirri».