Frammenti e tracce di sangue, il professor Emiliano Giardana alla ricerca di prove. Il genetista forense ha collaborato anche al caso di Yara Gambirasio.
Frammenti. Forse di plastica, forse parti di un oggetto d’arredo impugnato da una delle vittime nel tentativo di opporsi all’aggressore e che si è frantumato addosso al suo corpo, forse ferendolo. Sui frammenti, tracce di sangue. E, sembra, non soltanto materiale ematico. Sarà il professor Emiliano Giardina, genetista forense, il decifratore di «Ignoto 1» nell’assassinio di Yara Gambirasio, l’esperto che instradò i carabinieri sulla pista di Massimo Bossetti, a occuparsi dell’estrapolazione di un Dna.
Permane però un forte riserbo sulla possibile prima svolta nei cold case (almeno otto donne uccise negli anni Sessanta e Settanta, delitti mai risolti, un presunto serial killer in azione) che il Corriere segue dai primi giorni di gennaio. Da quando cioè il criminologo Franco Posa ha ipotizzato una mano comune negli omicidi.
Le armi bianche
Proprio in relazione a uno dei delitti, la parte difensiva, guidata dall’avvocato Valter Biscotti, ha acquisito quei frammenti da alcuni dei famigliari, restando a piena disposizione della Procura – dove il legale ha da tempo presentato istanza per l’acquisizione dei fascicoli – per ulteriori accertamenti, in attesa di eventuali confronti del professor Giardina su altri reperti. Come fin qui ricostruito da Posa e dal suo giovane staff, nella maggioranza dei delitti analizzati il killer, sempre attaccando con armi bianche – coltelli e pugnali –, iniziò le offensive davanti alle vittime e le terminò alle spalle delle donne, sferrando gli ultimi colpi contro la schiena. Del resto, la posizione di partenza frontale tra le donne e l’assassino risulta per esempio notoria nei delitti di Adele Margherita Dossena, che gestiva una pensione in via Copernico 18, e della stilista Valentina Masneri, che viveva in via Settala 57. Loro due aprirono la porta all’uomo poi loro massacratore. Dossena preparò su un tavolino dei bicchieri di liquore insieme a un vassoio di caramelle Sperlari, e dunque si profilò lo scenario di una piacevole sosta in compagnia; Valentina, che due ore dopo sarebbe dovuta partire in aereo per la Germania a un incontro di lavoro, nonostante l’esiguo tempo a disposizione per cambiarsi, preparare la valigia necessaria alla sosta a Francoforte – indossava ciabatte e guanti, stava pulendo i piatti – e infine raggiungere Linate, aprì la porta, accolse il futuro omicida e indugiò con lui chiacchierando.
Porta Venezia
Il riserbo sopra menzionato, in considerazione della delicatezza dell’attuale fase, che per appunto potrebbe anche introdurre scenari inediti innescando approfondimenti investigativi, si inserisce in una contro-inchiesta dalle molteplici difficoltà, pur se arginabili dalla forza degli odierni strumenti tecnologici. La dilatazione temporale, per cominciare, poiché l’inizio della catena dei delitti è datata 1963 con la fine di Olimpia Drusin, una prostituta trucidata a bordo della sua macchina in via Giovanni Pontano, a ridosso della massicciata ferroviaria. Un elemento che nelle riflessioni del figlio della donna aveva da subito assunto una dimensione anomala: Olimpia, che aspettava gli uomini in via Lazzaretto, ovvero nella medesima area della pensione di Dossena e dell’ampio appartamento di Masneri, nella parte di Milano compresa tra Porta Venezia e la stazione Centrale, non aveva l’abitudine di appartarsi in quella strada a fondo chiuso. A maggior ragione mai avrebbe compiuto quella scelta considerando che, a venti metri di distanza dal punto nel quale parcheggiò la sua Appia, viveva una cara amica. Un legame forte come quello tra due delle otto vittime, la stessa Dossena e un’altra prostituta, Elisa Casarotto, uccisa un anno dopo Olimpia in un bosco di pioppi in località Lacchiarella, a sud di Milano. Questo collegamento ha configurato un’iniziale base nell’impianto di Posa, seppur emersa in seconda battuta, dopo la stesura da parte del criminologo di un triangolo geografico.
La mappa
Grazie alle elaborazioni di un costoso software americano per la cui abilitazione serve non meno di un anno di studio, Posa ha identificato nella parte fra via Filzi, piazza Cordusio e via Pace il settore di abitazione oppure lavoro del serial killer. Al netto degli utilizzatori del software (la polizia di New York) e della sua stessa funzionalità (da anni compare nei dibattimenti giudiziari a evidente prova dei riconosciuti fondamenti scientifici), serviva però un successivo innesco. Che potrebbe derivare dalle risultanze degli esami del professor Giardina. Se in conseguenza del confronto con il codice genetico dei famigliari, il Dna isolato dovesse ricondurre a una delle vittime, la traccia dei frammenti allora potrebbe giocoforza perdere peso specifico. Ma in caso contrario si aprirebbero panorami adesso perfino difficili da prevedere. L’identica considerazione della logistica nei casi Dossena, Masneri e Drusin non può forse non includere l’assassinio di Salvina Rota. Per due dati certi (la vicinanza geografica, abitando la ragazza in via Tonale 4, e la conoscenza del killer) e per un terzo dato probabile: vero che il mattino lavorava come commessa in un supermercato, ma già all’epoca non si escluse che, specie la sera, vendesse il proprio corpo. E di sera, la 22enne Salvina, arrivata a Milano dalla Campania in cerca di opportunità, fu uccisa. Uccisa non per rapina, in quanto il killer nulla prelevò. E così avvenne nei due locali della casa-ufficio di Dossena all’interno della pensione, avvenne nel soggiorno di Masneri, avvenne sulle macchine di Drusin e Casarotto: le borse delle prostitute contenevano banconote che rimasero dove erano. Alla pari di un portachiavi d’oro inserito nel cruscotto dell’Appia di Olimpia.