Il pool di criminologi alla ricerca di indizi col software in uso alla polizia di New York, secondo il quale l’ipotetico assassino seriale avrebbe vissuto o lavorato in un preciso triangolo geografico in città.
Il tempo non aiuta. Oppure sì e anzi diverrà decisivo, amalgamando i raffinati progressi dell’investigazione e sovvertendo la fin qui fantomatica figura di un «mostro di Milano», fonte ispiratrice di romanzieri, pensiero ricorrente di sbirri in pensione, pagina studiata dagli storici. Fantomatica figura forse soltanto in conseguenza del fatto che lui, l’assassino, è (stato) irreperibile.
Gli anni del terrore
Cinquant’anni dal primo di cinque omicidi, tutti di donne e tutti irrisolti, più altri due antecedenti a metà dei Sessanta e forse connessi proprio a uno dei cinque. Casi eclatanti, mediatici fin dall’inizio, e casi meno noti avvenuti in stagioni di terrorismo, quotidianità aggressive, sequestri di persona, guerre dei clan criminali: le uccisioni di Simonetta Ferrero, dell’affittacamere Adele Margherita Dossena, della commessa Salvina Rota, della stilista Valentina Masneri, della prostituta Tiziana Moscadelli la cui fine ha spinto il dottor Franco Posa, criminologo, a esplorare anche le uccisioni di Olimpia Drusin ed Elisa Casarotto, ugualmente prostitute, trucidate nel 1963 e nel 1964.
Professionista schivo, difensore di una scienza spesso banalizzata, al lavoro insieme a uno staff di giovanissimi collaboratori, per intima curiosità, stanziando da sé i fondi, Posa ha avviato una ricerca sui delitti ipotizzando come fondamento una mano comune. Mai finora avevamo assistito alla formazione di un progetto investigativo, certamente embrionale, ora necessario dell’appoggio di magistrati e forze dell’ordine per l’esame dei singoli fascicoli con l’obiettivo, per cominciare, di restringere la mappa. Un’area triangolare. Entro questa porzione di Milano avrebbe vissuto/lavorato l’assassino. La geo-localizzazione è frutto di un complicato, assai costoso software americano, in dotazione alla polizia di New York e utilizzato nei dibattimenti. Il software, per il quale serve un anno intero prima di ottenere l’abilitazione, ha elaborato tramite algoritmi una massa infinita di dati: numero e tipologia dei reati, profilo di criminali e vittime, luoghi e orari dei crimini, incidenti stradali, linee e fermate dei mezzi pubblici… Il risultato inquadra una parte ampia di Milano densamente abitata, d’accordo, eppure indicativa per non spostare suggestioni di una convergenza verso la stazione Centrale, in considerazione della prossimità di tre delitti.
Ladri e bische nella casbah
Al civico 18 di via Copernico, Adele Margherita Dossena gestiva una pensione. Otto camere prezzi accessibili, frequente ricambio di ospiti, per lo più impiegati e universitari, in una struttura di ordine, pulizia, pagamenti puntuali. A 55 anni, separata, Adele Margherita era mamma di due figlie, Ermide che avrebbe aperto un negozio di parrucchiera al quartiere Lorenteggio e l’altra, Maria, in famiglia detta «Mariuccia:» la futura attrice della commedia all’italiana Agostina Belli, che invano investì i guadagni dei film assumendo investigatori privati. Delitto senza colpevole. Donna esperta, Adele Margherita non custodiva nel piccolo appartamento dal quale governava la pensione, somme di denaro. Chi la uccise, il 16 febbraio 1970 colpendola con un coltello alle spalle, proseguendo sul resto del corpo, infine sgozzandola, rovistò nell’alloggio o finse di farlo volendo inscenare una rapina. L’assenza di testimoni non orientò le indagini. L’evidente difficoltà della caccia evocò un’insondabile doppia vita. Adele Margherita non l’aveva. E non l’ aveva Valentina Masneri, stilista, sposata senza figli, trucidata, di nuovo a coltellate e sempre inferte alle spalle, nell’elegante abitazione di via Settala 57. Alle 17.55 del 18 marzo 1975, Valentina sarebbe dovuta salire a Linate su un volo per Francoforte. La aspettavano clienti ai quali mostrare bozzetti di vestiti. Il cadavere giaceva in salotto, sul tappeto, in mezzo a due poltrone. Il quartiere era una casbah di ladri e biscazzieri; la densità di bettole garantiva rifugi. Dai quattro locali e mezzo di via Settala scomparve un orologio d’oro della 25enne Valentina la quale, in ciabatte, aveva aperto la porta all’aggressore. Il marito, un grafico, che l’aveva salutata poco prima tornando al lavoro, attaccò le forze dell’ordine colpevoli, a suo dire, di trascuratezza. La scientifica isolò un bottone da cappotto maschile e il tacco di una scarpa, più un capello biondo, non appartenente a Valentina, e forse caduto dalla chioma di un’amica. L’ipotesi di una donna killer tenne fino alla mancanza totale e definitiva di riscontri.
I pedinamenti delle vittime
La risultanza del software «manovrato» dalla squadra di Posa, che comprende un’ex fuciliere dell’Esercito impegnata nei teatri balcanici, prevede la presenza stanziale dell’ipotetico serial killer (per non meno di otto ore al giorno) in un punto del triangolo geografico. Luoghi si presume attraversati dalle vittime che avrebbero incrociato lo sguardo e le attenzioni dell’omicida il quale avrebbe attivato un pedinamento, se residente, oppure intrapreso una conoscenza se per esempio in quell’area lui aveva un’attività. Un commerciante. Oppure un artigiano in proprio, privo di un flusso continuo di clienti che in virtù del differente orario dei delitti, gli permetteva di muoversi in libertà, uscendo ed entrando dal negozio senza destare sospetti. A meno di non farlo in una cronologia posteriore alla chiusura.
Salvina Rota morì il 16 giugno 1971, intorno a mezzanotte, seviziata con una lima e strangolata. Viveva in via Tonale al 4, dov’era tornata dopo il turno di lavoro da cassiera in un supermercato di largo Alpini. La sera di quel giorno, la 22enne Salvina aveva incontrato un’amica, Teresa, cameriera, che era rincasata in taxi (resoconto mai provato, un disperato appello della Procura affinché quel conducente si presentasse cadde nel vuoto). Si vociferò di un’assassina «esplorando» proprio Teresa, con cui la vittima nei mesi precedenti aveva condiviso l’amante, un ferroviere sospettato ma lontano da via Tonale e con un alibi considerato solido nel momento dell’omicidio. Anche il fascicolo di Salvina Rota fu chiuso senza colpevole.
Segreti di Stato e sfruttatori
Un serial killer può colpire vicino alla propria abitazione, in una zona da lui intesa alla guisa di esclusivo territorio di caccia di un predatore, oppure lontano dalla residenza per diminuire le possibilità di un’immediata collocazione. Lo scenario rappresentato coincide con il secondo volendo includere il delitto della Cattolica, delitto di cui sono ancora in vita protagonisti come l’allora seminarista, adesso vescovo, che scoprì nel bagno il corpo di Simonetta, devastata il 24 luglio 1971 da 33 pugnalate. L’incarico del padre, dirigente della Montedison, allargò le indagini su ipotetiche trame e segreti professional-istituzionali, una pista infeconda al pari delle suggestioni a posteriori correlate alla longeva amicizia tra Valentina Masneri e il figlio di Michele Sindona.
Caso più agevole quello di Tiziana Moscadelli. In apparenza. Da maggiorenne Tiziana aveva lasciato la casa di famiglia, in via Voghera, trasferendosi in due stanze senza bagno al 58 di via Tertulliano condivise con «Lola», all’anagrafe Salvatore De Natale. Come il travestito, la 20enne Tiziana si prostituiva nella cosiddetta «fossa dei leoni», tra la stazione Cadorna e il parco Sempione, dove in tanti solevano aggirarsi per importunare e spiare, compreso tale «Federico il pazzo». Conosciutissimo dagli sbirri, era stato fermato con l’accusa d’aver ucciso lui la ragazza, il 12 febbraio 1976. Tiziana, che rifiutava gli sfruttatori, assassinata con un coltello e l’aggiunta di un cacciavite, non si vendeva in casa, e mai si sarebbe portata a domicilio il «pazzo». Preferiva stare lontano, come la 45enne Olimpia Drusin, pugnalata nel quartiere di Greco nel 1963 e residente a ridosso del parco Sempione, e come la 29enne Elisabetta Casarotto, massacrata l’anno dopo sempre a pugnalate a Lacchiarella, a sud di Milano, che abitava in via Sercognani, quartiere di Villapizzone.
La prossima mossa di Posa, previo l’accoglimento del progetto da parte della Procura e nel caso degli investigatori, sarà la rilettura delle autopsie, partendo dal raffronto tra Simonetta e gli altri omicidi. I serial killer hanno nell’azione delittuosa un marchio, impresso anche variando numero e segni delle coltellate: somigliano alle caratteristiche comuni in una calligrafia pur modificando forma, inclinazione delle lettere e cambiando perfino mano. Se mai ci sarà una nuova narrazione poliziesca, quest’azione del criminologo, ed eventuali scoperte, ne formeranno l’incipit.2 gennaio