Il racconto di Enzo Portaccio, icona della polizia. Killer, Br, latitanti e la guardia ai Capi di Stato. Quella tra Porta Venezia e la Centrale era la zona delle «case chiuse clandestine».
«Da quando sono in pensione, mi sogno le indagini alle quali ho lavorato. No, non sono pensieri semi-coscienti nel dormiveglia: parlo proprio di sogni. Poi ci sono certi casi che giacciono e riesplodono provocandomi la stessa identica rabbia di allora. Basta un rimando, come quello che lei ha appena fatto, e rivedo la scena del crimine».
Il caso è quello di Valentina Masneri, la stilista assassinata nel 1975 e, in ordine cronologico, il settimo delitto irrisolto nella Milano degli anni Sessanta e Settanta per cui si ipotizza un serial killer. Enzo Portaccio, classe 1938, salentino di Taviano, è un’icona della polizia; un servitore dello Stato asceso al ruolo di funzionario al Quirinale e poi guida della sicurezza del presidente Oscar Luigi Scalfaro, e già direttore dell’Interpol; un uomo schivo, ancora oggi custode di «segreti sui quali mantengo l’obbligo del silenzio».
In quel 1975, Portaccio guidava la prima sezione (su cinque) della squadra Mobile, che si occupava di droga, prostituzione e omicidi. Entrò nell’appartamento di Valentina, 25 anni, sposata con un fotografo. La scena del crimine. Il 18 marzo. Metà pomeriggio. Alle 17.55, la stilista aveva un volo a Linate, destinazione la Germania. Qualcuno la assassinò prima. O forse qualcuna. «La moquette del soggiorno era impregnata di sangue della povera Valentina. Su quella moquette, l’impronta di un tacco da donna. Un tacco di quattro centimetri e molto largo; un tacco, ipotizzammo, di un’anziana. Non voglia sembrare una scusante, ma con i mezzi di allora si poteva fare ben poco. Era l’intuito a governare l’indagine. E, attenzione, non fu un’indagine frettolosa e sciatta. Basti dire che il magistrato era il dottor Emilio Alessandrini. Dunque ci concentrammo su quell’ipotetica figura di donna. Nel palazzo non abitavano persone anziane, pertanto cadde l’ipotesi di una vicina di casa che aveva sentito del trambusto, era entrata, aveva visto il corpo senza vita ed era scappata, sotto choc, calpestando le chiazze di sangue. No, la scarpa apparteneva a una persona esterna al condominio di via Settala».
Molti detective hanno la propria Dalia Nera, il soprannome di Elizabeth Ann Short, giovane vittima di uno dei più mediatici e iconici delitti (irrisolti) della storia del poliziesco; una vicenda ispiratrice di film e libri, come quello del maestro James Ellroy. Dottor Portaccio: Valentina è la sua Dalia Nera? «Quella fu una straordinaria stagione per il valore degli investigatori milanesi. Davvero. Un anno sequestrammo più del totale della droga sequestrata da tutte le squadre narcotici d’Italia. Uno dei centri del traffico di droga era la zona che includeva lo stabile di Valentina. Hashish, eroina, cocaina. Criminali turchi e siriani. Corso Buenos Aires era il canale dell’acquisto delle dosi. In più, sempre il quadrante tra Porta Venezia e la stazione Centrale ospitava case chiuse clandestine. Pensioni per studenti e lavoratori “nascondevano” camere per incontri sessuali. Una, famosissima, era a pochi metri dal palazzo dell’omicidio, ma Valentina con quel mondo non c’entrava niente, niente… Quanto a quell’impronta – le garantisco, mi passa l’immagine davanti agli occhi – era troppo marcata per sembrare casuale». E se l’assassino si travestì da donna? Una suggestione? Un’assurdità? Un’inattesa deviazione rispetto allo scenario di un serial killer? I giornali parlarono di impronte digitali nel bagno, e inseguirono la pista di un bottone da giacca maschile… «Io ho memoria del tacco. Punto. Ma il tacco non portò da nessuna parte».
La medesima geografia Porta Venezia/stazione Centrale è quella di altri due omicidi (nel 1970 Adele Margherita Dossena, che gestiva una pensione, e nel 1971 Salvina Rota, commessa di giorno e prostituta la sera), nonché il luogo di sosta di una terza vittima, Olimpia Drusin, che si vendeva in via Lazzaretto e fu assassinata nel 1963. Inoltre, nella vicina via Vitruvio, Simonetta Ferrero era solita frequentare un cineforum. Un delitto – l’unico degli otto oggetto della narrazione del Corriere da inizio gennaio – al quale lavorarono, senza distinzione alcuna, tutte le sezioni della squadra Mobile. Ma quell’anno, il 1971, Portaccio non era a Milano. Arrivò nel 1974, per lasciare la città nel 1982, dopo un conflitto a fuoco con i terroristi e dopo la scoperta, nei covi dei brigatisti, di maniacali dossier che riportavano ogni suo singolo spostamento, in previsione di un agguato. Andò a Roma e cominciò un’altra storia della carriera che l’ha visto operativo in 44 nazioni, a caccia di latitanti, quando ancora mancavano accordi bilaterali per le estradizioni.
«Se Cesare Battisti è stato messo su un aereo e rimpatriato, un po’ di merito va alle intese tra Bolivia e Italia per le quali tanto mi sono adoperato… Ma lasciamo perdere, non adoro parlare di me. Le racconto solo questa: da funzionario al Quirinale, avevo costruito un buon rapporto con il presidente Cossiga. Un giorno mi prese da parte e domandò per quale motivo mai, a differenza di quasi tutti, non avessi mai chiesto nulla. Risposi che ho sempre preferito fare da me, senza invocare aiuti… Fosse capitato oggi, l’omicidio di Valentina, sono certo che l’avremmo risolto, grazie alla tecnologia e alla possibilità di esaminare ogni dettaglio della scena del crimine, grazie alle specializzazioni della polizia. Ho l’età che ho, ma coltivo la speranza che si possa trovare il responsabile di quel massacro. Perché la rabbia di non aver incastrato l’assassino non passerà mai. Glielo giuro».